giovedì 15 luglio 2021

‘Aniyuth vs ‘Ashiruth Per una lettura dell’ultimo teatro di Guido Bedarida - di Umberto Fortis -

 

 (da "La vita quotidiana nel ghetto” pubblicato da Belforte Editore, 2012, pp. 301-320)

Aniyuth vs ‘Ashiruth

Per una lettura dell’ultimo teatro di Guido Bedarida



Fra niscadüd alegher e niscadüd fiurì...



Per sortir di nischadut (povertà)

Ci vorrebbero molti ma‘od (soldi)

Nun ce n'è, ba‘avonod (purtroppo; lett. per i peccati)

Nun si sa come si fa.


I semplici versi dell'antica canzoncina livornese sembrano cogliere, pur nella loro scomposta fragilità, una condizione purtroppo diffusa nella realtà quotidiana del ghetto o del quartiere ebraico, soprattutto nella sua fase declinante, tra Ottocento e primo Novecento. Nell'antica sede della segregazione rimase, in quegli anni, a vivere, per lo più, la popolazione più povera, spesso ancora legata ai mestieri umili di un tempo, sempre in lotta, con accettato fatalismo, per la sopravvivenza di ogni giorno. La classe più abbiente e i maggiorenti della comunità, lasciato il vecchio 'serraglio' per più nobile destinazione, poterono invece acquisire anche posti di prestigio nel contesto della società circostante, accentuando, in tal modo, il divario sociale già esistente all'interno della stessa qehillah (comunità), nella quale, pertanto, la dimensione economica divenne sempre più fattore discriminante. Non è perciò casuale, anzi è sintomatico, che le parlate giudeo-italiane, rimaste per qualche tempo ancora vive soprattutto negli strati meno agiati della popolazione comunitaria, abbiano mantenuto, in particolare, pur nel lento dissolversi del contingente lessicale di origine ebraica, elementi afferenti all'area semantica del denaro, i ma‘od , sia a esprimere una rassegnata accettazione per la sua carenza, sia nella prospettiva di un bisogno, in perenne attesa di soddisfacimento.

A scorrere, anche in modo cursorio, il complesso dei reperti linguistici delle varie sedi comunitarie, l'ampia gamma dei proverbi e dei 'modi di dire' che ci è pervenuta documenta, in maniera tangibile, una condizione sofferta, talora vissuta con superiore, ironica saggezza, talaltra aperta alla speranza di un sempre possibile mutamento. È vero, infatti, che una secolare esperienza di vita ha indotto a constatare che Chinnimmi co' chinnimmi hanno fatto sempre chinnimmi, a dire che il povero sta sempre con il povero, come i pidocchi stan sempre con i pidocchi, senza possibilità alcuna di cambiamento, e che solo Chi ha mamon ha cavod, perché solo il denaro procura onore; ma è anche vero, quasi a mo' di consolazione, che Meglio cavod che hovod, meglio l'onore che i debiti, anche se, tutto sommato, talvolta proprio I hovod son cui ch'a fan vivi, magari da una scadenza all'altra dei debiti da pagare! In una situazione siffatta, perciò, sono proprio i ma‘od che possono condizionare la vita, per cui non è possibile farsi illusioni o aspettare passivamente dei cambiamenti, perché Quando se rida e quando se baheja (piange) non se ciapa de li magnod. Ci sono, è altrettanto vero, due momenti che, in qualche modo, rendono uguali chi li possiede, il ‘ashir, e chi non li ha, l'ebreo ‘ani, e sono, nella mentalità popolare, il rispetto del sabato, in un'accezione nobilitante, perché Quando il judio è vestito da sciabbath o ‘ascir ‘ascir o ‘ani ‘ani: solo ricchissimi o poverissimi, infatti, rispettano il riposo sabbatico, che, per un giorno almeno, rende nulle le distanze sociali; o, in una dimensione meno edificante, quando ci si trova di fronte alla commissione delle tasse comunitarie, perché, allora, “quelli che cianno e quello che nun po'” diventano tutti “pover' e negri; pieni de chovoddi (debiti)”, con “lagrimi, giuramenti, strilli, pianti” e “tutto questo? Pe' nun caccia' mangkoddi”.

Al di là, tuttavia, del buon senso comune che i proverbi ovviamente riflettono, bisogna riconoscere che furono (sono?) proprio i ma‘od che anche nella società ebraica 'fecero (fanno?) la differenza', creando spesso attriti tra famiglie o gruppi, piccole o grandi merivod (litigi), non sempre risolvibili, all'interno del hatzer (ghetto), con l'intervento delle autorità rabbiniche. Tutta la letteratura giudeo-italiana, specchio fedele di una condizione di sofferta miseria e degli inevitabili contrasti tra il ricco e il povero, sia nei versi della cosiddetta “poesia minima del ghetto”, sia nelle produzioni destinate alla scena, è percorsa da questa topica, come da un filo rosso che lega i versi anonimi di tanti poeti, quasi come una costante ossessiva, o diventa struttura portante di pièces teatrali e di tanti sonetti romaneschi o livornesi.


Quà, intanto no g'avem gnan un kassì (mezza moneta)

e sì, par guio (per D-o), bisogna kanecar (mangiare),

e me mujer me dise insemenì

e me la sento tutto e di a sbraiar.

La dise: quelo che ghe vol, ghe vol,

va ben; capisso; e quando no se pol?


lamenta David, il sensale, in apertura de Il Contratto di Messulam Tedeschi, un testo in giudeo-veronese - edito proprio da Maria Mayer Modena – che costituisce forse il più antico reperto giudeo-italiano destinato alla scena, vero anello di congiunzione tra le esperienze poetiche ottocentesche e gli esperimenti teatrali giudeo-italiani del Novecento. Gli fa eco, a più di mezzo secolo di distanza, una povera judia del romano Portico d'Ottavia, che, nei sonetti giudaico-romaneschi di Crescenzo Del Monte, piange una ancor più accentuata condizione di miseria, che la costringe a chiedere la “zedacà” (elemosina) a una ricca 'Gnora Ribecca':


Gnora Ribecca mia, me se vergogna

la faccia, a venì' a di': stàe senz'un grosso (cinque baiocchi)!

Datem' un toccio (tozzo), un straccio, un scarto, un osso,

che tutto, tutt'è bóno, a chi abbisogna!


Neppure la distribuzione dei premi alle scuole israelitiche riesce a sanare, talora, una reale situazione di bisogno, perché al povero bimbo, figlio di un 'judio ‘ani', tocca solo il terzo premio, per “menzione onorevole”, senza alcuna, seppur piccola, somma di denaro:


..................................“O che fa?

si mette a baheare (piangere)”? “Poverino!


Su' pa' disoccupato, su ma' trotta

con il carretto...Onore lui ce l'ha,

ma intanto 'un vede il becco d'un quattrino!”


ricorda, con bonaria ironia, Meir Migdali nei suoi sonetti giudaico-livornesi. L'accento, tuttavia, di tanti versi e di molte scenette si sposta più frequentemente dal riscontro di una condizione individuale, purtroppo diffusa, alla delineazione dell'inevitabile contrasto tra il ricco e il povero, tra chi ha e chi non ha i ma‘od , a rimarcare appunto una delle più costanti relazioni conflittuali presenti anche nell'ambiente ebraico tra Ottocento e Novecento. “Ci regala quarcosa, sor Bondì?”- esclama una popolana del quartiere livornese, rivolta al nuovo presidente della comunità - “'Un ci / dà nulla?”- ribatte una sua compagna; “Di / 'Un franco a testa, 'un fallirebbe mia” - constata la prima, mentre il sor Bondì s'allontana in carrozza: “Si piglia gusto de la gente...è tzedacà?” - conclude una terza amica, un po' sconsolata, ma rassegnata di fronte a una realtà destinata spesso a ripetersi.

In effetti, a voler scegliere questa particolare ottica all'interno della produzione teatrale giudeo-italiana, l'attrito tra il ‘ashir e il ‘ani può essere assunto veramente come una chiave di lettura privilegiata di uno status che tante scenette, sostenute dall'intento di rappresentare una “realtà interiore o esteriore”, riambientata “là dov'era nata e nel modo com'era nata”, riescono spesso a rispecchiare fedelmente, anche se, talora, un atteggiamento di affettuosa ironia e di superiore distacco attenua ogni possibile senso di protesta, di fronte a quanto, in realtà, si ritiene immodificabile. In tale direzione, i due ultimi esperimenti teatrali di Guido Bedarida, Il lascito del Sor Baròcas e Alla“Banca di Memo”, del 1949–50, pur nella loro brevità, sono davvero testi che è necessario analizzare, anche perché destinati, per il loro messaggio, a chiudere una stagione, che solo tempi recenti hanno visto, con evidenti affinità, rifiorire sulle rive del Tevere nel rinato teatro giudeo-romanesco o nei tre volumi dei Racconti di Barotto di Angelo Piperno.


Il ‘ashir e il ‘ani


Non è, a dir il vero, una novità vedere rappresentato sulla scena l'ebreo povero, legato a umili mestieri o appartenente comunque a una classe sociale inferiore, anche a prescindere, ovviamente, dall'ambito giudeo-italiano. Pur non rifacendosi direttamente a tradizioni precedenti, è certo che i due testi di Bedarida rivelano un qualche tenue legame con la produzione letteraria italiana, nella quale ebrei appaiono spesso, sia pur di lontano e in funzione assolutamente secondaria. Nelle scene italiane ed europee, o nella narrativa, l'ebreo 'ricco' era soprattutto l'ebreo usuraio, delineato, sulla scorta del modello dello Shylock shakespeariano, in una molteplicità di deformanti variazioni, tutte fortemente intrise di spiriti antisemiti, quasi a disegnare l'idea del male, contrapposta a tutta la società circostante; oppure è sempre 'uom di malaffare' o truffatore. Al contrario, l'ebreo 'povero', di passaggio in autori d'alto prestigio, in tanti opuscoli caricaturali o nelle cosiddette 'scene all'ebraica' di autori minori, apparteneva sempre agli strati sociali inferiori, più miseri: dai 'rissosi' ebrei del Croce, ai facchini e sensali de Lo schiavetto dell'Andreini, al robivecchi della Tempesta amorosa del Donzellini, agli “ebrei e can marrani” del recitativo di Pasquariello ne La Tartarea di Giovanni Briccio o al “regattiere” de Li Strapazzati dello stesso, per far solo alcuni esempi; o, per passar a testi più blasonati, ai venditori ambulanti dell'Aretino: il “Giudeo da gli occhi rossi e dal viso giallo” del Marescalco, o il Romanello giudeo, che “i putti” tempestano “tutto dì con melangole, con iscorze di melloni e con cucuzze”, de La Cortigiana.

Le due tipologie, tuttavia, non erano quasi mai affrontate, quasi mai s'incontravano nella stessa rappresentazione. Nell'ultimo teatro giudeo-italiano, invece, i due judim (ebrei) convivono nello stesso spazio chiuso, reale o immaginario, di un hatzer (ghetto) non più esistente fisicamente, ormai, ma inteso come 'condizione di vita', nella quale il rapporto tra “quelli che hanno e quelli che non hanno” è teso sempre a evidenziare, nei molti modi che la dimensione scenica consente, soprattutto la differenza tra due condizioni sociali che convivono, ma non si fondono, che appartengono alla stessa comunità, ma operano sempre su piani il cui divario è difficilmente superabile. Quando il contatto tra ‘ashir e ‘ani è diretto, il confronto, misurato spesso sugli aspetti della più quotidiana materialità, quali il cibo o il vestiario, rivela anche nella delineazione somatica dei protagonisti una vistosa differenza: opulento, che “schizza di salute” è il Sor Pitigliano, in Alla “Banca di Memo” del Bedarida, “brutto e giallo / Più del Malah Ammaveth” (l'angelo della morte) è il suo Mosellino, il venditore ambulante. E nessun gesto di benevolenza o di beneficenza, troppo spesso elargito con superiore distacco, riesce a sanare antitesi tanto ampie. Rari i casi in cui ci si attiene veramente a quanto detto in Proverbi, 19, 17: “Colui che ha misericordia del povero, è come se facesse un prestito a D-o e D-o lo ricompenserà” [come nel racconto Er Garante di Piperno (III, 24)]! Quando invece il rapporto è a distanza, il ‘ashir diventa una sorta di miraggio, di mèta lontana, presente nella mente del ‘ani solo in proporzione dell'elargizione, vera o presunta che sia, che egli lascia da distribuire ai 'poveri' della sua comunità: una 'grazia' da conquistarsi in una lotta tra rivali senza esclusione di colpi, come avviene tra i due padri di Quarant'anni fa di Bruno Polacco, che si contendono cento franchi lasciati da un parnas (sovrintendente della sinagoga) a una giovane coppia di sposi; un lascito vagheggiato, atteso, rincorso e poi sfumato, con profonda delusione da parte di tutti, ma anche con la sempre rinnovata speranza di un nuovo evento, come appunto avviene ne Il lascito del Sor Baròcas di Bedarida.

La dinamica che regge l'incontro-scontro tra il 'ricco' e il 'povero' è fondata su un rapporto del tutto singolare. Nel confronto, diretto o indiretto, che s'instaura, infatti, tra i due opposti si ha quasi l'impressione di una replica, sia pur in sedicesimo, del particolare legame che lo shnorrer di zangwilliana memoria presuppone sempre nei confronti di chi è ricco, quasi a voler interpretare, spesso in modo estensivo, quanto in realtà è previsto nella Torah e sviluppato nella normativa halakhica. La tzedaqah è un atto di giustizia, un dovere: se tutti i beni sono da considerarsi un prestito divino, la carità ne assicura, in qualche modo, un'equa distribuzione (Pirke Abhoth, III, 8). Del resto, l'atto di carità porta un beneficio spirituale anche al donatore, talora diviene un mezzo di espiazione, ottiene un compenso da parte divina, anche se la vera carità dev'essere disinteressata. Tutti principi che, nella credenza popolare, vengono tradotti nella convinzione che l'ebreo ‘ani possa avanzare quasi il 'diritto' del 'povero', appunto, di ottenere aiuti da chi ha la possibilità di disporre di beni e ricchezza; mentre l'ebreo ‘ashir dovrebbe comunque adempiere la mitzwah (precetto) della tzedaqah nei suoi confronti, quasi come un 'dovere' imposto dal suo benessere economico. Questo binomio, 'diritto'-'dovere', tacito presupposto di ogni confronto, traspare spesso, quasi in filigrana, proprio in singole battute o in più estesi dialoghi di molte scene dell'ultimo teatro giudeo-italiano, a registrare una condizione piuttosto diffusa, ma anche a constatare che, comunque si risolva o si sviluppi, nell'acquisizione o meno di un lascito o di un'elargizione, rimane sempre la triste, inevitabile realtà che le distanze permangono ampie e, forse, destinate a rimanere tali nel tempo.


I due atti unici o, se si preferisce, le due brevi scenette con le quali Bedarida conclude la sua produzione teatrale sono allora, in tale direzione, più che ogni altro testo, esemplari, pur nella loro fragilità. Essi sanno trascrivere, con singolare, bonaria ironia, ma anche con eccezionale abilità linguistica, un'immagine del ghetto italiano, nella sua fase dissolutiva, che nessun altro documento storico potrebbe tramandare, con pari efficacia. La facies, per così dire, degradata del quartiere ebraico che essi rappresentano, infatti, è assai lontana dai valori ideali che le precedenti scene giudeo-livornesi avevano inteso trasmettere al pubblico delle sale dei convegni delle varie comunità degli anni trenta. Coerente con una poetica teatrale, affidata a una serie di scritti e di interventi in vari congressi, Bedarida aveva, infatti, voluto inviare dalla scena un messaggio morale di richiamo ai principi dell'ebraismo, per riportare a una vera identità ebraica coscienze troppo spesso smarrite nell'ansia dell'assimilazione e dell'integrazione. I suoi commercianti de Il siclo d'argento, con il loro amore per Gerusalemme; gli ebrei festanti nella ricorrenza del Purim dell'Intermezzo, le propensioni mistiche del rabbino Uzielli, nella più complessa Vigilia di Sabato, avevano saputo riproporre un'immagine del ghetto come metafora di una condizione esistenziale, nella quale il più autentico rispetto dei precetti di una vita ebraicamente vissuta poteva ancora fungere da valido incentivo al ritorno a “quanto sapesse di ebraico” che, in quei difficili anni trenta, la parte più consapevole degli intellettuali ebrei italiani tentava di proporre. Lo avevano, in qualche modo, seguito gli autori della famosa Gnora Luna giudeo-fiorentina, animati sì da un intento documentario nei confronti del vernacolo toscano, ma anche dalla volontà di ricordare qualità che era necessario recuperare in un mondo comunitario troppo lontano dall'antica tradizione.

La promulgazione delle leggi razziali del '38, la difficile situazione creatasi all'interno dell'ebraismo italiano, tuttavia, avevano frustrato ogni possibile illusione, tolto ogni possibilità di un percorso divenuto, in simile temperie, improponibile. Ne è testimonianza, appunto, in quegli anni, l'opera di Bruno Polacco, Quarant'anni fa, che lungi da prospettive ideali o da soluzioni edificanti, porta sulla scena giudeo-veneziana proprio il volto misero del ghetto, nello scontro tra due ‘aniim che si contendono una 'grazia' da cento franchi, lasciata da un ricco maggiorente della comunità a una giovane coppia di 'poveri' sposi. La pièce veneziana segnava, in tal modo, il punto estremo di una parabola, che sviluppatasi negli anni precedenti, stava perdendo ogni residuo intento moralistico, per assestarsi sulle dimensioni di una bassa quotidianità. Il ritorno alla vita, dopo le tragiche vicende della Shoà, non poteva che affacciarsi su una realtà, dove le differenze sociali tra chi si era potuto salvare e aveva potuto salvare i propri beni e chi, invece, tutto aveva perduto erano divenute, anche all'interno delle varie comunità, problema di scottante attualità. Quando perciò Bedarida ritornava alle scene con i suoi due fragili esperimenti in bagitto, editi sulla rinata Rassegna Mensile di Israel, il discorso non poteva riprendere che dalla visione del ghetto che Polacco aveva anticipato e che i testi teatrali giudeo-italiani degli anni '20 e '30 avevano evitato di documentare, impegnati, come s'è visto, in più alti intenti. Non si trattava più, infatti, del recupero di un passato, certamente idealizzato e riproposto in funzione correttiva a un presente lontano dai valori tradizionali, bensì di cogliere una difficile situazione presente attraverso il filtro di immagini di una fase di decadenza di un passato non troppo lontano.

Certo, si dovrà riconoscere che in queste due ultime proposte sceniche il ricorso al giudeo-livornese ha perduto, in parte, la funzione che aveva avuto nelle commedie precedenti, quale ingrediente essenziale alla riesumazione di un passato perduto, e si riduce, invece, a elemento prevalentemente documentario, dettato, semmai, dalla stessa “pietà filologica [...] nostalgica e indulgente, quasi di affettuosa ironia” che Terracini riscontrava nei più tardi sonetti di Ebrei di Livorno; ma il vernacolo livornese è ancora, comunque, fattore importante a ricostruire un ambiente nella sua più autentica realtà, perché la struttura dialogata, in versi endecasillabi, spesso spezzati con estrema abilità tecnica, rende l'immagine di quella società più spontanea e credibile, soprattutto attraverso frasi, proverbi, modi di dire che Bedarida aveva potuto direttamente sentire, in età giovanile, dalla voce degli ultimi utenti di quel bagitto, che era rimasto appunto vivo negli strati sociali più umili della comunità labronica.


Nun m'accapita mai d'èsse di seggiole / Alte


La struttura portante attraverso la quale l'avvocato livornese rappresenta uno degli aspetti dominanti nella dinamica sociale del ghetto degli anni trenta è appunto la topica dello scontro tra ‘ashir e ‘ani, risolta ora in un rapporto a livello individuale tra il ben pasciuto Sor Pitigliano e il nishadoso (miserabile) Mosellino e tutta giocata attorno alla materialità del cibo, assunto quale elemento primo di differenziazione; ora, invece, in una più complessa dimensione corale, nel gruppo di ‘aniim del hatzer toscano che rincorrono il lascito del ricco Sor Baròcas, ritenuto morto.

Il breve atto Alla“Banca di Memo”, pubblicato sul numero di marzo del 1950 della Rassegna Mensile di Israel, non è affidato ad alcun gioco di movimenti scenici o a particolari soluzioni extratestuali, ma è costruito tutto su un sapiente dosaggio del dialogo, che sfuma tra momenti di sarcasmo e di spunti maliziosi, da un lato, e di risentite risposte dall'altro, che accentuano di continuo la distanza tra i due interlocutori. Sulla spalletta del “Fosso Reale” di Livorno, denominata la “Banca di Memo”, luogo di ritrovo di molti ebrei, siedono il Sor Pitigliano, ricco negoziante, e Mosellino, povero venditore ambulante. La differenza di stato sociale, già evidenziata nella scelta onomastica, che contrappone l'altisonante Sor al semplice diminutivo, è subito rimarcata nella delineazione fisica dei due: “Schizza di salute”, il primo, tutto “spantaheato” (stravaccato), al sole; “brutto e giallo [...] smedrato, nishadoso” (rachitico e miserabile), il secondo. Tra i due si sviluppa un dialogo che ovviamente ha come oggetto di discussione il cibo, fattore quotidiano di distinzione: “Pan con pan, caro lei, comèr de bobos” (mangiar da stupidi), per il primo, venditore di stringhe da scarpe e di saponette, di fronte al lauto pasto ironicamente esibito dal ricco Sor Pitigliano; al limite del sostentamento, per il povero, cui “nun... accapita mai d'èsse di seggiole / alte” e che, addirittura, al confronto con l'elenco di vivande sciorinato dal ricco, si muore “di voglia di un bicchiere / di caffè”. L'incalzare di Mosellino, che ricorda la gran quantità di cibi e di vivande, di qualità di vini e di quantità di frutta che ha visto comprare alla moglie del Sor Pitigliano acquista, a questo punto, quasi il sapore di una piccola rivalsa verbale, capace di far infuriare l'interlocutore, fino alla conferma, tra maliziose insinuazioni e concrete verità, che


Eh...a ‘ashirim, ma‘od e holaim (malattie)

A povertà, fagioli e baccalà.


L'incapacità del ricco di comprendere la verità, di scendere al livello del suo inferiore, memore quasi dell'antico detto che “Quien se mete con su menor, pierde su cabod”, si manifesta allora nel tentativo, derisorio, di sanare la sghergia (fame) di Mosellino offrendo banalissime noccioline e arachidi, con l'inevitabile, ironica reazione, non priva però di speranza:


Quando mi fa mangiare 'r kuskussu,

Sor Pitigliano?


Il perentorio “Mai” del ricco negoziante elimina ogni illusione, ristabilendo una distinzione che, quasi per reazione, viene riaffermata, ove ve ne fosse bisogno, da un'esasperata esibizione di quanto in effetti egli ha mangiato, fino a provar nausea e a destar l'ironia compiaciuta di Mosellino sulle conseguenze negative del lauto pranzo: magra, ma unica, piccola soddisfazione!

A colmar le distanze, in effetti, non basta allora, certamente, il gesto finale del Sor Pitigliano. Mentre si accende un bel toscano e Mosellino, quasi a segnar ancora una volta le differenze, cerca una cartina per farsi una cicca, con un atto magnanimo egli regala al povero venditore ambulante un sigaro intero, ma solo dopo aver realmente pensato, mosso da pietà, di regalargliene mezzo! Grande gesto, che non ha certo il valore di una mitzwah fiorita, ma sancisce, ancora una volta, la presenza di un abisso che si è incapaci di eliminare.


Quanno che 'ngkètte stamio tutti quanti,

arenserati come carcerati

stracci e chinnimmi erano tanti!


Allora c'era pace e chaccheranza (amicizia)


ricorda con nostalgia il poeta, facendo eco alla canzone torinese: “J ero mei i temp passà”. Ma ora che i tempi sono cambiati e che del vero spirito del ghetto resta solo un lontano ricordo


mo ch'a lo ngkascirùdde se so' dati

se danno pur'un sacco d'iportanza!


I ma‘od ci pervengano: e' son nostri...


Molte volte, tuttavia, erano proprio le famiglie più povere che attribuivano “iportanza” alle famiglie dei nuovi ‘ashirim, forse, perché, nella singolare 'moralità' popolare, erano quelle che 'dovevano' venir loro in aiuto, con lasciti, elargizioni, atti, insomma, di tzedaqah. Una relazione siffatta, destinata a ripetersi con frequenza nelle comunità non solo italiane (come dimenticare la figura del batlàn di tanta letteratura jiddish?), viene colta, con estrema puntualità, da Bedarida proprio nel secondo degli ultimi due atti destinati al teatro, che egli pubblicò nel quarto numero della Rassegna Mensile del 1949, Il lascito del Sor Baròcas.

Si sparge la notizia della morte del Sor Baròcas, nome illustre, appartenente a una delle famiglie più ricche della comunità labronica, celebrata fin dall'Ottocento, anche nei versi, recentemente ritrovati, dell'Ascoli, nella figura di Jacob Baròcas, “campione” cui “morte rapì le ultime scintille”. Si dice che il nobile ‘ashir abbia lasciato alla sua comunità un lascito da distribuire ai poveri. Di fronte alla cancelleria dell'Università Israelitica, sulla cui porta si presenta Mone, il custode, accorre una folla di “poveri, uomini e donne”, guidati, per l'occasione, da Caffellatte, una sorta di portavoce della folta schiera. Si tratta di un gruppo 'anonimo', connotato forse proprio per questo, da Bedarida, solo con soprannomi tipici del hatzer livornese: Giordano, Melucciole, il Rosso, l'Ammiraglio, Piedi di Cagio, Rachelina, Pépero....a evidenziare quasi una condizione collettiva, indifferenziata. L'altro, il Sor Baròcas, è presente in absentia, ma il lascito, l'oggetto del desiderio, attrae come una calamita, come qualcosa di 'dovuto', che è nel 'diritto' dei poveri avere da spartire in parti eque. E, in effetti, il primo segmento narrativo dell'intera breve pièce, registra, in una sorta di movimento centripeto, una corsa confusa verso la mèta, che si svolge dentro lo spazio aperto delle strade del quartiere ebraico, in un intrecciarsi di voci e di richiami, nel tempo, anche questo tipico, del mattino, il tempo della speranza. È il momento della grande illusione, dell'attesa che porta subito a enfatizzare, con malcelata compassione, la figura del Sor Baròcas, il grande benefattore:


Povero sor Baròcas! ci s'aveva

L'istessa età: ha fatto propio presto!

Una degna persona...E poi si dice

Che nun esistan più, padri de' poveri...


ma anche, ovviamente, a scendere a più concrete valutazioni:


Quant'ha lasciato?

Nun si sa 'r preciso:

Son dietro a riscontrare.

Quanto tocca?

E chi sa nulla?

Ci hanno detto

Nun so quanti miglioni...

Ma sterline?


o, ancora, a inveire, secondo tradizione, contro le autorità, che non vengono incontro alle esigenze di chi aspetta:


Perché, da noi, le cose son malfatte:

Mandino fogli, mettino un cartello...


L'apice di questa tensione porta non solo a dar per scontata la morte, fino ad allora non accertata, del Sor Baròcas, ma anche, addirittura, a prevedere la tipica vegliata, la riunione di preghiera in occasione del settimo (o nono) e del trentesimo giorno di lutto. Anche se, nel fluttuar di sentimenti contrapposti, al fine, è proprio l'interesse più concreto a dominare:


Me l'hanno detto 'n Banca che la somma

Il Ma’amad (consiglio) l'aveva già riscossa!

La villa for di Porta n'è toccata

A la Cheillà?


È il punto d'arrivo del primo 'movimento', di questa prima sezione dinamica del testo, che finalmente si conclude con l'apertura dei portoni della cancelleria da parte di Mone, Salomone, il custode, vero tramite tra la folla dei questuanti e le autorità ancora lontane, non responsabile di ritardi o di scelte anomale, ignaro di tutto, ma, ovviamente, solidale con le esigenze dei poveri.

L'aprirsi delle porte della qehillah, la soglia del desiderio, segna il passaggio al segmento, per così dire, statico dell'intero percorso scenico. Dopo una rapida corsa sulle scale della cancelleria, infatti, la scena si sviluppa tutta nello spazio interno, chiuso, del “locale” comunitario, nell'attesa della sospirata, dovuta, spartizione del lascito tanto agognato. La complessa psicologia propria della condizione di ‘anijuth è colta qui da Bedarida in modo penetrante. L'archisema di tutto il frammento scenico, che costituisce certo il passaggio più importante dell'intero testo, è nell'affermazione corale:


I ma‘od ci pervengano; e' son nostri...

Ci s'aspettano pure l'addietrati,

No?


ripresa poco più oltre, dalla perentoria conferma, più volte ripetuta:


Che siam venuti per pigliare 'r nostro,

Gne n'hai detto?


Si chiede 'r nostro”, insomma, secondo la tradizione del 'diritto' del povero e del 'dovere' del ricco. Forte di questa persuasione, che spesso i lunghi tempi della segregazione avevano convalidato, ma anche per la fatica dell'attesa dell'evento che tarda a venire, la folla dei ‘aniim si arroga il nuovo diritto di sospettare raggiri inaccettabili nella particolare dimensione etica del ‘anijuth, di inveire contro le autorità costituite, che avrebbero agito in maniera non conforme al rispetto di chi ha bisogno!


Avanti, bisogna se li goda

Il Presidente, Deputati...e poi,

Se rimane uno scinico, pe' poveri.


Dinni che si vergognino; le gente

Son qui dall'arba.

E loro a scioheare (dormire).


E al sospetto, in un crescendo attentamente articolato, non può che accompagnarsi, giustificata dall'enfasi del momento, la protesta, che fatalmente sfocia nel biblico richiamo al nemico primo d'Israele:


Ni direi che ci hanno 'r seme

Di ‘Amalek 'n corpo!


L'unica difesa possibile, in tale frangente, diviene allora una “dimandita” scritta, affidata concordemente a Caffellatte, sempre più portavoce ufficiale dell'intero gruppo di questuanti. Replica fedele di una protesta scritta inviata realmente alcuni anni prima alla comunità, Bedarida ne riproduce la prosa disarticolata, ma fortemente espressiva, riflesso estremo, pur attraverso l'esplicita, bonaria ironia dell'autore, di uno stato d'animo di tensione, di rivendicazione, ma anche di una sconsolata presa di coscienza, forse, dell'inutilità dell'attesa. Troppe assenze, troppo silenzio in quell'ufficio: le autorità non arrivano più, sulla possibilità di ricevere il lascito comincia a serpeggiare un senso di frustrazione, di rinuncia:


Ho capito, ci butti l'ascavà!


la preghiera per i defunti, è l'espressione sconsolata che emerge dal coro, come si trattasse ormai di un oggetto definitivamente perduto.

È il tempo della delusione, della caduta di ogni possibilità di un attimo di sollievo economico. Lo sviluppo della vicenda avviene, allora, simbolicamente, con un percorso inverso a quello iniziale, in un movimento centrifugo, nell'allontanarsi della folla dalla cancelleria, nel passaggio nuovamente dall'interno all'esterno, che segna, almeno per il momento, la fine dell'attesa.


.................ha' voglia di Baròcas:

Sparti qui, sparti là, nun ti toccava

Un dente.


Finché la verità viene svelata: “Nun è vero che sia morto Baròcas!”; e la conclusione diviene inevitabile, a rimarcare la qualità dei rapporti tra i due estremi della società:


Lo sapevooo!

Con questi ‘ascirim nun c'è da fare

Un pasto bono...


Sembra la fine di tutto, il crollo di ogni illusione. Eppure, nonostante la momentanea delusione, resta sempre, nella mentalità popolare, la persuasione che qualcosa dovrà pur avvenire, che il 'ricco', che lo stesso Baròcas, dovrà pure “agguantare” il 'povero', gli verrà in aiuto, perché il ‘ashir


Ormai

Ci ha l'impegno...

Morale, ne combieni?


che, infine, è l'unica àncora di salvezza per chi non ha nulla, la convinzione che, prima o poi, l'aiuto deve giungere. Tant'è che la vera morale, il vero epilogo, ma destinato a ripetersi nel tempo, è affidato, in conclusione, a una povera vecchietta che, ignara di tutto, giunge all'ultimo momento, quasi a condensare, nella sua maturata esperienza, la rassegnazione e la speranza di sempre:


Fatalità spartissero dimani

Quattrini di Baròcas, me li asserba?

Nun è morto...però nun si sa mai!






BIBLIOGRAFIA


Andreini 1612 Giovan Battista Andreini, Lo schiavetto, Milano, Malatesta, 1612.


Aretino 1971 Pietro Aretino, Teatro, a c. di Giorgio Petrocchi, Milano, Mondadori, 1971.


Ascoli 1885-86 Raffaello Ascoli, Gli ebrei venuti a Livorno, Livorno, Costa, 1885-86.


Bedarida 1949 Guido Bedarida, Il lascito del Sor Baròcas, in “La Rassegna Mensile di Israel”, XV (1949), pp.182-192.


Bedarida 1950 Guido Bedarida, Alla“Banca di Memo”, in “La Rassegna Mensile di Israel”, XVI (1950), pp.128-135.


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Briccio 1627 Giovanni Briccio, Li Strapazzati..., Roma, Facciotti, 1627.


Cammeo 1910 Giuseppe Cammeo, Studj dialettali, in “Il Vessillo Israelitico”, LVIII (1910), pp. 8-9, 148-149, 403-404, 448-450, 506-507, 543-545.


Cassuto 1909 Umberto Cassuto, Parlata ebraica, in “Il Vessillo Israelitico”, LVII (1909), pp. 254-260.


Croce 1611 Giulio Cesare Croce, Rissa tremenda fra Mardochai e Badanai, in La scatola historiata, Bologna, Cochi, 1611.


Del Monte 1976 Crescenzo Del Monte, Sonetti giudaico-romaneschi, a c. di Micaela Procaccia, Assisi/Roma, Carucci, 1976.


Diena 1984 Paola Diena, Il giudeo-piemontese. Tracce attuali e testimonianze socio-linguistiche, in Ebrei a Torino. Ricerche per il centenario della sinagoga 1884-1984, Torino, Aliprandi e C., 1984, pp. 231–244.


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Fornari 2004 Salvatore Fornari, Cento sonetti giudaico-romaneschi, Roma, Litos, 2004.


Fortis 1989 Umberto Fortis, Il ghetto in scena. Teatro giudeo-italiano del Novecento. Storia e testi, Roma, Carucci, 1989.


Fortis 2004 Umberto Fortis, Tra i nipoti di Shylock. L'usuraio ebreo nella letteratura dell'Italia liberale, in L'antisemitismo moderno e contemporaneo, a c. di U. Fortis, Torino, Zamorani, 2004, pp. 131-155 ( già in “Miscellanea di Studi”, Venezia, Storti, 1993, pp. 127-177).


Fortis 2006 Umberto Fortis, La parlata degli ebrei di Venezia e le parlate giudeo-italiane, Firenze, Giuntina, 2006.


Fanceschini 2006 Fabrizio Franceschini, Iberismi, ebraismi, esotismi nel lessico della poesia giudaico-livornese (1832-1990), relazione presentata al IX Congresso Internazionale della Società di Linguistica e Filologia Italiana, Firenze, 14-17 giugno 2006 (in stampa).


Jochnowitz 1981 George Jochnowitz, Religion and Taboo in Lason Akodesh (Judeo-Piemontese), in “International Journal of the Sociology Language”, XXX (1981), pp. 107-117.


Jochnowitz 1982 George Jochnowitz, Judeo-Italian Lexical Items collected by Zalman Yovely, in “Amsterdam Studies in the Theory and History of Linguistic Science”, IV (1982), pp. 143-157.


Marchi 1993 Vittorio Marchi, Lessico del livornese con finestra aperta sul bagitto, Livorno, Belforte, 1993.


Mayer 1998 Maria Mayer Modena, “Un Contratto” di Messulam Tedeschi di Verona, in Hebraica. Miscellanea di Studi in onore di Sergio. J. Sierra, a c. di Franco Israel, Alfredo M. Rabello, Alberto M. Somekh, Torino, Istituto di Studi Ebraici – Scuola Rabbinica “S. H. Margulies – D. Disegni, 1998, pp. 357-377.


Migdali 1990 Meir Migdali Della Torre, Trenta sonetti giudaico-livornesi, Natania, ed. dell'autore, 1990.


Milano 1938 Attilio Milano, Gli Enti culturali ebraici in Italia nell'ultimo trentennio (1907-1937), in “La Rassegna Mensile di Israel”, XII (1938), pp. 253-269.

Pavoncello 1986 Nello Pavoncello, Modi di dire ed espressioni dialettali degli ebrei di Roma, I, Roma, Tip. Veneziana, 1986.


Piperno 1983-86 Angelo Piperno, I racconti di Barotto, Firenze, Giuntina, I, 1983; II, 1984; III, 1987.


Pur'io...1985 Pur' io riderio...si 'o matto 'un fosse 'o mio, pref. di Micaela Procaccia, Roma, Carucci, 1985.


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Terracini 1951 Benvenuto Terracini, Residui di parlate giudeo-italiane raccolti a Pitigliano, Roma, Ferrara, in “La Rassegna Mensile di Israel”, XVII (1951), pp. 3-11, 63-72, 113-121.


Terracini 1966 Benvenuto Terracini, La grande illusione, in Scritti sull'ebraismo in memoria di Guido Bedarida, Firenze, Giuntina, 1966, pp. 211-225.


Viriglio 1897 Alberto Viriglio, Come si parla a Torino, Torino, Lattes, 1897.



INDICE DEI NOMI


Andreini Giovan Battista

Aretino Pietro

Ariosto Ludovico

Ascoli Raffaello

Beccani Angelo

Bedarida Gabriele

Bedarida Guido

Bené Kedem (Cassuto)

Boito Arrigo

Briccio Giovanni

Cammeo Giuseppe

Cassuto Umberto

Croce Giulio Cesare

D'Annunzio Gabriele

Del Monte Crescenzo

Dickens Charles

Diena Paola

Donzellini Alessandro

Fornaciari Pardo

Fornari Salvatore

Fortis Umberto

Franceschini Fabrizio

Gigli Girolamo

Goldoni Carlo

Hauff Wilhelm

Israel Franco

Jochnowitz George

Marchi Vittorio

Massariello Merzagora Giovanna

Migdali Della Torre Meir

Milano Attilio

Modena Mayer Maria

Pavoncello Nello

Petrocchi Giorgio

Piperno Angelo

Polacco Bruno

Rabello Alfredo M.

Scott Walter

Sierra Sergio J.

Somekh Alberto M.

Tavani Giuseppe

Tedeschi Messulam

Terracini Benvenuto

Vecchi Orazio

Viriglio Alberto



 

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