(Testo di una conferenza
tenuta nel 1974 a Milano, inaugurando
un ciclo di conversazioni su «La bioetica, un ponte per la
sopravvivenza».)
Il
rapporto esistente nell’ebraismo tra l’uomo e la natura è
molto stretto e si può agevolmente riscontrare esaminando il
racconto della creazione del mondo così come ci è stato
narrato dalla Bibbia nelle prime pagine dei Genesi.
«Dio
disse: La terra produca germogli, erbe che facciano seme,
alberi da frutto che diano frutti ciascuno secondo la propria
specie, contenenti il loro seme, sulla terra.»
«Dio
disse: Si popolino le acque di esseri viventi; volatili volino
sulla terra, sulla superficie della distesa celeste. E così il
Signore creò i grandi mostri acquatici, tutti gli esseri
viventi che si muovono, di cui le acque brulicarono di varia
specie, e tutti i volatili alati delle diverse specie. Dio
vide che era cosa buona. Dio li benedisse dicendo:
Prolificate, moltiplicatevi, e empite le acque nei mari e gli
uccelli si moltiplichino sulla terra» ...
«Dio
disse: La terra produca essere viventi di specie varia,
animali domestici di specie diverse; e così fu. Dio fece
bestie selvatiche di differenti specie, animali domestici di
ogni sorta e vari tipi di rettili che strisciano sulla terra.
Dio vide che era cosa buona.
Dio
disse poi: facciamo un uomo a immagine nostra, a nostra
somiglianza; domini sui pesci del mare, sui volatili del
cielo, sugli animali domestici su tutta la terra e su tutti i
rettili che strisciano sulla terra. Dio creò l’uomo a sua
immagine, lo creò a immagine di Dio, creò maschio e femmina.
Dio li benedisse e disse loro: Prolificate, moltiplicatevi,
empite la terra e rendetela soggetta a voi, dominate sui pesci
del mare, sui volatili del cielo e su tutti gli animali che si
muovono sulla terra. Dio disse: Ecco, io vi do tutte le erbe
che fanno seme, che sono sulla faccia della terra, tutti gli
alberi che danno frutti e che producono il seme; vi serviranno
come cibo.
Agli
animali tutti, della terra, a tutti gli uccelli del cielo e a
tutti i rettili che strisciano sulla terra e che hanno un
afflato di vita, tutte le erbe verdi serviranno di cibo. E
così fu. Dio vide che tutto ciò che aveva fatto era molto
buono».
Da
questo primo racconto emerge un dato di grande importanza:
mentre le piante, gli animali, i pesci furono creati dalla
parola del Signore che si tramutava in attività spontanea
della natura, l’uomo venne creato, venne formato, da Dio
stesso. C’è in questo fatto un profondo significato. Mentre la
parola divina suscita le forze della natura che danno origine
alle piante ed agli animali, l’uomo viene distinto da ogni
altro essere creato e viene fatto da Dio come un prototipo da
cui poi nascerà il genere umano.
Evidentemente
è questo un segno notevole della benevolenza di Dio verso
l’uomo, che ne rispecchia l’immagine e la somiglianza.
L’immagine,
in quanto è uno come il suo creatore è uno,
la somiglianza, perché ne può imitare l’azione, la potenza
creatrice. Nel momento stesso in cui Dio cessa di creare,
l’uomo ne continua l’azione e diviene in tal modo suo
collaboratore nell’opera della creazione.
Il
Signore poi benedice con identica espressione piante, animali
e uomo, invitandoli a crescere ed a moltiplicarsi. Ma per
l’uomo aggiunge l’invito a dominare la terra e quanto in essa
si trova sì che siano a lui soggette la terra stessa, le
piante e gli animali.
Mentre
il Signore aveva - in un primo momento - creato un perfetto
equilibrio nel creato, ora può sembrare - col dominio
dell’uomo sulla terra - che tale equilibrio possa essere
minacciato.
Infatti,
se quel potere concessogli venisse inteso come permissione di
ogni arbitrio da parte dell’uomo, lo sconvolgimento
dell’ordine dato da Dio alla natura potrebbe apparire
giustificato.
Ma non
è così che si deve intendere il potere dell’uomo sul creato:
egli è autorizzato solo a servirsi e a godere di ciò che Dio
ha messo in essere, ma non può e non deve alterare .
quell’equilibrio per il quale il Signore, contemplando ciò che
aveva fatto, giudicò essere tov meod: perfetto.
In
questa perfezione riscontrata al termine della creazione c’è
implicito il concetto che ogni alterazione apportata
dall’azione dell’uomo mette in pericolo quella perfezione, che
è divina, per sostituirla con un altro ordine non più divino
ma umano, quindi imperfetto e limitato.
C’è una
parabola dei Rabbini che ha un significato profondo, a
riguardo del compiacimento che il Signore provò al termine
della creazione del mondo quando, contemplando ciò che aveva
fatto, lo trovò bellissimo: «C’era una volta un re che si era
costruito un bel palazzo e guardandolo se ne compiaceva, tal
che parlandogli quasi fosse una persona gli disse: o palazzo,
o mio palazzo, magari tu riuscissi a destare sempre in me il
fascino che hai in questo momento!» Nello stesso modo Iddio
apostrofò il mondo che aveva creato dicendo: «o mondo, o mio
mondo, magari tu riuscissi a destare sempre in me quel
compiacimento che susciti in questo istante!».
I
Rabbini fin dalla più lontana antichità si rendevano conto di
come l’uomo avrebbe potuto alterare l’opera di Dio e
modificarla fino a farle perdere quel fascino, quella
bellezza, quella armonia che avevano suscitato nel Creatore
quel sentimento di soddisfazione e di compiacimento che gli
fecero trovare bellissimo ciò che aveva fatto. Una cosa dunque
è sicura e cioè che «Bereshit», all’inizio, in un momento
determinato del tempo, le cose del mondo che noi contempliamo,
la luce del sole che ci riscalda, il cielo che è al di sopra
della terra, la terra con le sue piante e con gli animali che
la popolano, il mare infinito e finalmente l’uomo, furono
creati da Dio e coesistevano in perfetta armonia, dando in tal
modo l’impressione che il mondo era perfetto.
Nell’opera
della creazione l’uomo è dunque l’essere più nobile in quanto,
per la sua stessa struttura e per le sue doti intellettuali,
risulta essere più vicino al suo Creatore, che lo ha posto in
una posizione privilegiata, eleggendolo signore e dominatore
di tutti gli altri animali. Anzi, si potrebbe dire che il
mondo è stato creato in funzione dell’uomo, che ha la
supremazia su tutti gli altri esseri, e sulla terra stessa,
che gli è stata concessa come fonte del suo sostentamento e
del suo benessere. Ciò non è sfuggito al Salmista che nel
salmo VIII così ,si esprime: «Tu hai dato all’uomo la signoria
sull’opera delle Tue mani e tutto hai posto sotto i suoi
piedi: le greggi, gli armenti ed anche le bestie dei monti,
gli uccelli del cielo ed i pesci del mare, che percorrono le
vie degli oceani». Ma tutto questo non deve inorgoglire l’uomo
che, sia: pure nella sua posizione di privilegio, non ha il
diritto di ritenersi il centro dell’universo, il padrone
dispotico di tutto ciò che esiste. Egli deve sempre ricordare
che al di sopra di tutto c’è Dio e che nessuno, neanche
l’uomo, può permettersi alcun arbitrio nei confronti di
quell’armonia e di quell’equilibrio, che Egli pose nel mondo
soprattutto per la felicità e per il benessere del genere
umano.
La vita
nell’Eden del primo uomo e della prima donna faceva parte del
quadro armonico creato da Dio. I primi esseri umani che vi
abitavano vivevano una vita beata e tranquilla e nulla
ostacolava il loro potere su quanto il Signore aveva posto a
loro disposizione.
C’era
solo una limitazione, una trascurabile limitazione, alla quale
però il Creatore aveva dato una enorme importanza e cioè
quella di non mangiare del frutto di un albero che cresceva in
mezzo al giardino: «Del frutto di ogni albero del giardino tu
potrai mangiare, ma il frutto dell’albero della conoscenza del
bene e del male non lo mangiare, perché il giorno che tu lo
mangerai morirai». (GENESI II 16-17). Il significato di questa
allegoria appare assai chiaro: l’uomo è posto dinanzi ad una
scelta; o vivrà privo di responsabilità in uno stato quasi
infantile, nel quale il Signore lo curerà come una madre fa
con il proprio figlio, tenendo lontani da lui ogni pericolo ed
ogni preoccupazione e fornendogli senza limite tutto ciò che è
necessario per il suo sostentamento e per il suo benessere,
oppure si responsabilizzerà, conoscerà ciò che è bene e ciò
che è male, e agirà come meglio crederà andando incontro alle
conseguenze del proprio agire consapevolmente, pronto ad
affrontare ogni rischio. Eva ed Adamo si fecero sedurre dal
serpente, si fecero sedurre cioè da quel sentimento che è
nell’animo di ogni uomo che non vuoi rimanere in eterno allo
stato infantile, ma che vuoi viceversa conoscere, progredire,
creare e sentirsi padrone del proprio destino. E Dio non li
punisce tanto per aver voluto conoscere e distinguere il bene
dal male, ma solo perché hanno disubbidito al suo comando.
Infatti se egli non avesse voluto che l’uomo fosse arbitro di
scegliersi la sua strada, non avrebbe posto quell’albero in
mezzo al giardino bene in vista, quasi una quotidiana
tentazione per lui. Infatti Egli così dice ad Adamo: «Poiché
hai dato retta a tua moglie ed hai mangiato del frutto di
quell’albero del quale ti avevo detto: non ne mangiare! la
terra sarà per te maledetta». (GENESI III, 17). L’uomo ha
disobbedito ad un comando che Dio aveva formulato, non tanto -
come dicevo - per il desiderio che l’uomo non si emancipasse,
non progredisse nella via della conoscenza, ma solo perché -
come ha scritto Umberto Cassuto (Da Adamo a Noè) - Dio col suo
amore paterno gli aveva proibito di mangiare il frutto che gli
avrebbe aperto la porta alla conoscenza del mondo, fonte di
affanno e di dolore, ed avrebbe messo fine al suo candore ed
alla sua felicità.
Perché
come è scritto nell’ECCLESIASTE (I-18): «col crescere della
sapienza cresce lo scontento e quanto più uno acquista
conoscenza, tanto maggiori dolori si procura».
Su una
espressione strana, ed in un certo senso equivoca, del testo
Biblico vale la pena soffermarsi. Quando il Signore si rivolge
ad Adamo per rimproverarlo e per annunziargli la punizione per
la sua disubbidienza, gli dice: «La terra sarà per te
maledetta!».
Possibile
che il Signore maledica ora quella creazione della quale si
era compiaciuto e che aveva trovato perfetta? Evidentemente
ciò non è possibile ed allora, alla luce di quanto è scritto
subito dopo nel testo, si può arrivare a comprendere il vero
senso della espressione in questione. Dio non maledice la
terra ma afferma che essa sarà per l’uomo una maledizione
perché, prosegue il testo (GENESI III - 17-19): «tu ne
riceverai il cibo con dolorosa fatica per tutto il tempo della
tua esistenza; essa farà germogliare per te spini e rovi e tu
mangerai l’erba del campo; col sudore della tua fronte
mangerai pane, finché tornerai alla terra dalla quale sei
stato tratto». L’uomo è dunque costretto a lavorare e questo
lavoro faticoso sarà per lui la punizione. Dice il Cassuto (da
Adamo a Noè, pag. 92): «Nell’Eden l’uomo riceveva ogni
alimento a lui necessario senza alcuna difficoltà. La terra
del giardino era bagnata dall’acqua del fiume e non c’era
bisogno della pioggia. L’uomo non doveva far altro che tendere
la sua mano e cogliere tutti i frutti dell’albero che voleva.
Quando venne scacciato dal giardino e dovette entrare nelle
aperte campagne, infinite, alla cui fertilità non bastavano
più le acque delle sorgenti e dei fiumi, cominciarono le
pioggie, che recano fertilità alla terra. Il pane, per essere
ricavato dalla terra, richiede un lavoro faticoso da parte
dell’uomo; era questo il castigo che gli era stato inflitto
per la colpa da lui commessa».
L’uomo
viene dunque cacciato dal giardino meraviglioso dell’Eden ed
inizia la sua vita seguendo la propria inclinazione, i propri
gusti, le proprie tendenze: è ormai un uomo libero di fare ciò
che vuole, ciò che gli piace, il bene ed il male. Con la
promulgazione della Legge Sinaitica si forma una sorta di
triangolo che vede ai suoi vertici il Signore, il popolo
d’Israele, la terra. Questi tre elementi sono interdipendenti
e legati indissolubilmente l’uno all’altro. Dio è il
legislatore che ha dato delle norme che debbono regolare la
vita dell’uomo; l’uomo ha la facoltà, attraverso il libero
arbitrio che gli è stato concesso, di seguire quelle norme
oppure di respingerle; la terra infine soggiace per l’azione
dell’uomo alla benedizione del Signore, oppure diviene
strumento di punizione e di castigo per l’uomo che la coltiva
e che attende da essa il benessere, la tranquillità e
l’agiatezza.
«Se
obbedirete a queste Leggi, le onorerete e le seguirete - si
legge nel Deuteronomio (VII-12-15) - Dio manterrà nei tuoi
confronti il patto e la benevolenza che ha promesso ai tuoi
Padri. Egli ti amerà, ti benedirà e ti farà crescere; egli
benedirà i frutti del tuo ventre, i frutti della tua terra, il
tuo grano, il tuo mosto; il tuo olio, i parti dei tuoi buoi e
i giovani tuoi agnelli. Non ci sarà uomo sterile o donna
infeconda né in te né nel tuo bestiame. L’Eterno allontanerà
da te ogni malattia, e tutti i cattivi morbi d’Egitto che tu
conosci non li porrà in te, ma li darà a tutti i tuoi nemici».
La
legge di Dio sostituisce dunque il giardino dell’Eden, con le
sue norme dirette alla santificazione dell’uomo così che, la
trasgressione di esse, gli comporta una punizione identica a
quella che colpì Adamo quando disubbidì al Signore. Se l’uomo
sarà ubbidiente, anche la terra risponderà alle sue cure ed
alle sue fatiche, divenendo prodiga di ogni suo frutto ed
anche gli animali si uniranno a lei per dare all’uomo
l’agiatezza e la massima soddisfazione.
Ma se
l’uomo ignorerà la parola di Dio ed agirà secondo il proprio
arbitrio, allora il Signore non manderà la pioggia, la terra
non darà il suo prodotto, l’uomo impoverirà e non troverà più
nel lavoro il soddisfacimento dei suoi desideri e delle sue
necessità. La terra diverrà per lui una maledizione, come il
Signore- aveva predetto al primo uomo.
Martin
Buber ha interpretato quei versi del Deuteronomio in modo
mirabile. Egli scrive (l srael and Palestine, pag. 23 e
segg.): «Alla fine del vagabondaggio, in vista della Terra
Promessa, la storia della Promessa entra in una nuova fase per
adeguarsi alla nuova situazione. Nella grande rievocazione che
Mosè fa del passato e nello sguardo con cui penetra il futuro,
si parla della Terra in una maniera nuova. La cosa nuova è la
rivelazione del segreto della terra. Di tutte le terre questa
è l’unica che per sua natura è soggetta in modo speciale alla
provvidenza ed alla grazia di Dio. Perché il popolo ne abbia
coscienza si debbono mettere a confronto ancora una volta le
due terre Egitto e Canaan.
La
fertilità dell’Egitto non dipende dai mutevoli doni del cielo,
che esso riceve in misura limitatissima; la creazione vi ha
provveduto una volta per sempre; il Nilo è stato creato per
inondare la terra ogni anno; se la sua forza è irregolare gli
uomini hanno migliorato, con enorme sforzo tecnico di tutta la
popolazione, l’opera della creazione erigendo dighe e
cateratte per regolare la corrente, scavando canali, i fossi
per distribuire l’acqua, costruendo ruote per sollevarla dai
fiumi e dai laghi e raccoglierla nei canali e nei fossi.
Canaan è del tutto diverso. È «un paese di torrenti d’acqua,
di fontane, di sorgenti che scaturiscono da valli e da
montagne» (DEUT. VIII-7), ma tutto ciò va e viene e la terra è
malsicura, essa «beve l’acqua della pioggia del cielo» (lbid.,
XI-11) è nella mano di Dio «che la visita di continuo» (lbid.,
XI-12). È il luogo in cui la grazia domina su tutto. Ciò che
attende dall’uomo, dal popolo, è «amore». (lbid., XI-13).
Se
avessero amato il Signore con tutto il cuore e con tutta
l’anima, come era stato loro comandato, (lbid. VI-5) Dio
avrebbe fatto piovere nella stagione opportuna, ad autunno ed
a primavera, le due stagioni in cui piove sulla terra in
Israele, e ciò avrebbe assicurato un buon raccolto per l’uomo
e erba abbondante per gli animali. Questo concetto è ripetuto
infinite volte in tutta la Bibbia ed ogni ebreo lo ricorda due
volte al giorno, quando si alza al mattino e quando si corica
la sera, con le parole dello Shemà: «Se ascolterete i miei
precetti, che io vi comando oggi, di amare il Signore con
tutto il cuore e con tutta l’anima, io darò la pioggia per la
vostra terra, la primaticcia e la tardiva, raccoglierai i tuoi
cereali, il tuo mosto ed il tuo olio, darò pure l’erba nel tuo
campo per il tuo bestiame, mangerai e ti sazierai. Però
guardatevi bene che il vostro cuore non devii e vi
allontaniate e prestiate culto ad altri dei, prostrandovi ad
essi, perché allora divamperà l’ira del Signore contro di voi,
chiuderà il cielo e non ci sarà pioggia, la terra non darà più
il suo prodotto e così sarete presto rigettati da sopra quella
buona terra che il Signore vi ha dato»
(DEUT.
XI-13 e segg.).
Ma
l’uomo non ha solo doveri verso il suo Creatore, ne ha anche -
e ben precisi - nei riguardi della natura, dalla quale attende
il benessere, il nutrimento, la ricchezza.
Nel
Decalogo dell’Esodo, (XX-8-11) il quarto comandamento
prescrive il riposo sabbatico. Una volta alla settimana cioè
il settimo giorno è un giorno di riposo assoluto, di
cessazione da ogni lavoro: «Non farai alcun lavoro,né tu, né
tuo figlio, né la tua figlia, né il tuo schiavo, né la tua
serva, né i tuoi animali, né il forestiero che abita con te.
Perché in sei giorni .il Signore fece il cielo e la terra, il
mare e tutto ciò che si trova in essi e si riposò nel settimo
giorno; perciò il Signore benedisse il sabato e lo santificò».
Lo
stesso concetto è ripetuto nel Decalogo del Deuteronomio
(V-12-15) dove il riposo degli animali viene sottolineato con
l’esemplificazione che non dovrà lavorare di sabato «né il tuo
bue né il tuo asino né alcun tuo animale».
Per
l’uomo il riposo sabbatico assume due particolari significati:
religioso e sociale. Religioso, perché quel giorno viene
dedicato a Dio Creatore dell’universo proprio in ricordo della
creazione avvenuta in sei giorni e del «riposo» di cui il
Signore godette al termine della sua attività; sociale, perché
serve altresì a far riposare coloro che non hanno un lavoro
autonomo, indipendente, ma debbono obbedire ad un padrone che,
in mancanza di una disposizione siffatta, potrebbe sfruttare
il modo inumano i suoi dipendenti.
Anche
gli animali quindi debbono riposare e restare nelle stalle o
al pascolo perché anche essi fanno parte del creato ed hanno
uguali diritti, anch’essi non possono essere sfruttati, ma
debbono lavorare né più né meno di quanto lavora l’uomo. Anche
la terra riposa di sabato; riposa perché l’uomo non la lavora,
né il bue vi traccia il solco.
La
giornata del sabato serve quindi alla contemplazione
dell’uomo che si sofferma ad ammirare ciò che è stato creato
e ciò che egli stesso ha creato e prodotto al termine di ogni
settimana, nonché a ringraziare e santificare il Signore
autore dell’opera della creazione.
Nel
Capitolo XXIV dell’Esodo, si parla di un altro istituto che ha
un indubbio significato cosmologico e di difesa della natura,
oltreché un altissimo significato sociale: l’anno sabbatico.
Come il sabato viene dopo sei giorni di lavoro ed il settimo
viene consacrato - come abbiamo detto - a Dio ed alla
contemplazione del Creato, così l’anno sabbatico viene dopo
sei anni di lavoro agricolo e serve al riposo della terra ed
alla uguaglianza degli uomini rispetto ad essa.
Infatti
il sabato e l’anno sabbatico sono due momenti, due sia pur
brevi momenti, in cui si ripristina la sovranità di Dio su
tutto il creato e gli uomini diventano tutti uguali; non ci
sono più ricchi e poveri, ma ci sono uomini che debbono in
ugual misura godere del riposo settimanale e, una volta ogni
sette anni, nell’anno sabbatico, avere l’illusione che non
esistono differenze di classe. La terra, nell’anno del suo
riposo, può dare i suoi frutti solo a chi ne ha bisogno e non
al padrone soltanto. Nell’anno sabbatico la terra torna ad
essere di Dio e gli uomini possono tutti godere ugualmente dei
suoi frutti. «Per sei anni seminerai la tua terra e
raccoglierai il prodotto, ma nel settimo la lascerai incolta,
ne abbandonerai il prodotto affinché ne godano i poveri del
tuo popolo ed il resto lo mangeranno le bestie della campagna;
la stessa cosa farai con la tua vigna ed il tuo oliveto».
Dice
Martin Buber (O. c. pag. 14 e segg.): «Il punto
essenziale è che il riposo dei campi significa un riposo
divino e la sua libertà una libertà divina. Riposare, essere
libero, cessare il lavoro, non è una condizione negativa, è
più che mera cessazione dall’opera e dalla dipendenza, è lo
stato dell’essere assunto nell’operazione del patto
divino. Col venir liberata dall’autorità dei proprietari, con
il concedere i suoi frutti a tutti, la terra è santificata
nuovamente ad ogni ricorrente anno sabbatico. Il fatto di
consentire a tutti di approfittare dei prodotti dei campi ad
intervalli regolari, rende manifesto ripetutamente che la
terra è di Dio».
Dell’anno
sabbatico torna ancora a parlare il LEVITICO (XXV - 1,7) dando
le particolari norme d’attuazione della legge. L’agricoltore
ed il contadino ebreo, debbono seminare, potare, mietere
regolarmente il prodotto dei loro campi e le loro vigne
durante sei anni mentre il settimo debbono interrompere ogni
lavoro nella campagna e abbandonare i frutti nati
spontaneamente a chiunque ne ha bisogno senza restrizioni o
privilegi per alcuno: il padrone diviene come il suo servo, il
ricco come il povero, in una uguaglianza sociale che li
accomuna. Questo ricorda agli uomini che essi sono soltanto
provvisoriamente ammessi al possesso della terra perché essa
appartiene solo a Dio e l’anno sabbatico è il sabato della
terra, la sua «cessazione». Come il sabato del popolo non è un
puro e semplice riposo dal lavoro, ma un giorno sacro dedicato
a Dio, nello stesso modo il Sabato della terra è qualche cosa
di più di un semplice riposo di essa per un anno intero. È la
enunciazione pratica dell’idea che la terra deve essere per un
certo tempo libera, non sottoposta alla volontà dell’uomo, ma
lasciata alla sua propria natura, in modo da essere terra di
nessuno per tornate ad essere la terra di Dio. È quasi una
sospensione del diritto di proprietà e tutti gli uomini e
tutti gli animali hanno uguale diritto di godere dei frutti
nati spontaneamente come dono di Dio. La legge del Giubileo
poi, l’anno che veniva dopo sette settimane di anni, era
dedicato a realizzare praticamente l’idea che la
terra è
di Dio che l’ha creata e non di coloro che l’hanno comperata o
avuta in eredità. Il risultato della compera e dell’eredità è
quello di dare solo il possesso temporaneo di una terra, mai
la proprietà perpetua. Venuto l’anno del Giubileo, tutti i
frutti che la terra donava in quel periodo di riposo completo,
non possono essere raccolti da nessuno, ma chi ne aveva
necessità poteva mangiarli sui posto: «Non seminerete e non
mieterete le erbe nate da sé in quell’anno e non vendemmierete
le vigne, non potate in quell’anno, perché è il Giubileo. Sarà
sacro per voi: «Direttamente dal campo mangerete i prodotti di
quell’anno». (LEVITICO XIV-11).
Dio
dunque, che ha creato il mondo, ne è anche il padrone e quando
nel Giubileo le terre tornano al primo loro possessore, ciò
non fa che confermare che vale soltanto la disposizione: «la
terra non potrà essere venduta definitivamente perché Mia è la
terra e voi non siete altro che forestieri e provvisori presso
di me»
(LEVITICO
XXV-23 ).
Egli
avrebbe potuto creare un mondo statico, ma preferì crearlo
dinamico. Un commentatore della Genesi, Rabbi Levì Ben
Ghereshon, afferma che solo in un tempo molto lontano da
quando venne da lui creato, il mondo si perfezionerà al suo
limite massimo.
Nei sei
giorni della creazione ed in particolare nel sesto, quando
creò l’uomo, Dio mise le basi di questo perfezionamento. Si
legge infatti in BERESHIT RABBÀ (XI) che «tutto ciò che è
stato creato nei primi sei giorni ha bisogno di un’opera di
completamento». È questa una interpretazione dinamica della
creazione. L’uomo diviene collaboratore del Signore nell’opera
della creazione perché fino a quando egli non aprì gli occhi
alla luce del mondo «Iddio non aveva fatto piovere sulla terra
e non c’era nessuno per coltivare il suolo» (Genesi II-5).
Creato l’uomo, il Signore fece piovere e la terra cominciò ad
essere lavorata. Si passa così dalla fase statica a quella
dinamica. La creazione era perfetta perché conteneva in sé
tutto ciò che era necessario alla sua evoluzione e l’uomo
sarebbe stato il collaboratore del Creatore in questo processo
evolutivo.
È così
che l’uomo cominciò a pascolare il gregge, a costruire città,
a lavorare metalli e a piantare alberi e vigne. Quest’opera
non doveva essere lasciata all’arbitrio dell’uomo che avrebbe
potuto guastare ciò che Dio aveva fatto e per questo Egli
ritenne di poter dettare delle norme che l’uomo non avrebbe
dovuto dimenticare accingendosi al lavoro. Queste norme
salvaguardano quell’equilibrio anche ecologico che il Signore
stabilì perché l’uomo fosse felice e potesse vivere in pace a
contatto con la natura.
Sono
quindi ispirate al rispetto dell’ordine naturale, delle cose e
delle leggi supreme del creato quelle norme che vietano la
promiscuità degli incroci, sia in agricoltura che
nell’allevamento del bestiame che vennero dettate al popolo
ebraico per mezzo di Mosè: «Osservate le Mie leggi; non
accoppiare due quadrupedi di specie diversa, non seminare il
tuo campo di due specie diverse e una stoffa fatta di due
specie diverse (lana e lino) non venga da te indossata»
(LEVITICO, 19-19). Questo significa che anche il mondo animale
e vegetale hanno una loro nobiltà alla quale non si deve
attentare se non si vuoi compiere un atto sacrilego
modificando la natura originaria di ciò che Dio ha creato in
un determinato modo.
Neanche
in tempo di guerra è permesso tagliare gli alberi da frutto e
devastare i campi del nemico: «Quando assedierai una città per
molto tempo, combattendo contro di essa per occuparla, non
distruggere i suoi alberi colpendoli con la scure, perché solo
i loro frutti potrai mangiare, ma l’albero non potrai
tagliare, perché l’albero della campagna non è una persona che
può rifugiarsi dentro una fortezza per difendersi di fronte al
tuo assalto. Soltanto l’albero che tu saprai non essere da
frutto potrai tagliarlo e costruirci strumenti di assedio»
(DEUTERONOMIO :XX-19,20). È questo un concetto nobilissimo:
viene considerata azione vile quella di infierire contro degli
alberi che non possono difendersi e che sono stati creati per
dare all’uomo il loro frutto. Si debbono quindi rispettare
quelle creature verso le quali ogni inimicizia è ingiusta e
che - perché sono indifese - sono state lasciate in balia
dell’uomo che, conoscendone l’utilità, dovrebbe rispettarle,
curarle ed amarle. Maimonide, il grande filosofo ebreo,
(Regole riguardanti i re, cap. IV) commentando questa norma
scrive: «Non si tagliano gli alberi da frutto anche se sono
fuori della terra d’Israele e non si possono deviare i corsi
d’acqua per farli morire, come è scritto: non distruggere i
suoi alberi e chiunque li tagli deve essere punito.
Ciò
vale non solo per il caso d’assedio ma in ogni circostanza». I
doni della natura, i frutti degli alberi, di cui ogni uomo può
godere, non gli appartengono completamente. Egli deve
ricordare che gli provengono da Dio e per questo deve
consacrarne a Lui una parte. È così che le primizie devono
essere recate al Tempio con una cerimonia consacratrice dei
prodotti del suolo e così pure la prima decima dei prodotti
che viene data al Levita, deve essergli consegnata, per
ricordargli il suo dovere di consacrarsi interamente alla
salvaguardia dello spirito. Infatti egli, liberato dalle
preoccupazioni materiali, deve essere il portavoce della
parola di Dio il difensore dell’Alleanza. È una specie di
restituzione al Signore che viene fatta per dimostrare che
l’uomo non si considera come il proprietario di ciò che gli
viene dalla terra, dal suo lavoro, dalla sua fatica, ma solo
come gestore di quei beni. Si dimostra in tal modo che nessuna
pianta muore solo per il suo proprietario, che nessun albero
fiorisce solo per il suo possessore. Ogni chicco di grano,
ogni frutto, gli insegna come si possono perseguire attraverso
mezzi naturali dei fini spirituali.
Nella
Mishnà (ROSH HA SHANÀ I-1) si afferma che esistono quattro
capi d’anno: il primo di Nissan è il capo d’anno per i re e
per le feste, il primo di Elul è il capo d’anno per il
prelievo della decima degli animali, il primo di Tishrì è il
capo d’anno per gli anni, per le remissioni, per i giubilei,
per le piantagioni e per le verdure; il quindici di Shevath è
il capo d’anno degli alberi.
Esiste
quindi un capo d’anno degli alberi che, pur non essendo una
festa comandata dalla Bibbia, viene ugualmente solennizzata
dal popolo d’Israele, non solo nella sua terra, ma in tutti i
paesi della sua dispersione. Due sono i modi di festeggiare il
quindici di Shevath: mangiando i frutti degli alberi e
piantando alberi. Mangiare la frutta, significa partecipare
alla gioia degli alberi che li hanno prodotti, godere della
benedizione del Signore, che con i frutti ci ha dimostrato la
sua benignità e la sua benevolenza. Piantare alberi, significa
rendere fertile la terra e prendere parte attiva al rinnovarsi
della vita vegetale. I cabbalisti, i Maestri del misticismo
ebraico, hanno dato un significato particolare al fatto che il
quindici di Shevath è prescritto che si mangino i frutti che
gli alberi hanno prodotto per noi.
Sono
arrivati fino ad affermare che, mangiando la frutta, si
riscatta il peccato di Adamo e si contribuisce a sistemare il
mondo nel regno dell’Onnipotente. Non è qui il caso di
approfondire questo argomento, ma è chiaro che anche per il
cabbalista esiste un legame, un rapporto stretto fra l’uomo e
la natura e che la natura può indurre l’uomo a tornare ad
armonizzarsi con il creato e ad adempiere ai suoi obblighi
verso Dio. Questa giornata del capo d’anno degli alberi fin
dai tempi più antichi è stata dedicata alla piantagione degli
alberi. Se ne piantava uno per ogni bambino nato nell’anno: un
cedro per ogni maschio e un cipresso per ogni bambina.
Gli
alberi crescevano insieme ai bambini e quando essi, divenuti
adulti, si sposavano, si tagliavano dei rami dai loro alberi
per ornare il baldacchino nuziale.
Piantare
alberi è un precetto affermativo attraverso la cui esecuzione
l’uomo collabora con Dio all’opera della creazione ed impara a
rispettare la natura. Piantando nuovi alberi si rende fertile
la terra e si diviene parte attiva nel necessario rinnovarsi
della vita vegetale. Dio, per parte sua, manderà la pioggia,
che gli alberi assorbiranno per nutrirsi per formare nuova
linfa vitale. È con la pioggia che il Signore mostra di
apprezzare, benedicendola, l’opera di chi ha piantato nuovi
alberi.
I
dottori hanno affermato, già venti secoli fa, che le piante
non solo vivono, ma parlano tra di loro attraverso lo stormire
delle loro fronde e quando un albero viene abbattuto il suo
grido si ode su tutta la terra. È un grido che l’uomo,
purtroppo, non percepisce ma, solo che lo potesse udire, lo
farebbe riflettere sui danni immensi che egli con la sua
azione distruttrice va producendo a quell’equilibrio, che Dio
ha stabilito nel mondo. Quando però, egli pianta un albero nel
capo d’anno degli alberi, che è il giorno del giudizio per
tutte le piante, per tutto il mondo vegetale, tutti gli alberi
si rallegrano per questo atto di amore per la natura e cantano
le lodi del Signore. Come ha affermato il Salmista: «Allora
conteranno tutti gli alberi del bosco davanti al Signore, che
viene a giudicare la terra: Egli giudicherà l’universo con
giustizia e i popoli con lealtà». (SALMI XCVI , 12).
C’è un
Midrash che dice: «Se tu stai piantando un albero e
ti dicono: È venuto il Messia, prima pianta l’albero, e poi
vai a ricevere il Messia». A prima vista può sembrare quanto
meno strano l’accostamento tra il piantare alberi e la venuta
del Messia, ma non è così. La Bibbia considera il
rimboschimento come uno dei fattori essenziali della
ricostruzione della terra d’Israele e la ricostruzione di essa
è, secondo i Profeti, una delle condizioni essenziali per la
venuta del Messia. Ma da un punto di vista più universalistico
si può dire che l’amore degli uomini per la terra, la loro
riconciliazione con la natura, con quel mondo vegetale che fin
dalla genesi era stato loro ostile, è segno di riscatto e
premonitore della venuta del Messia, di quell’epoca in cui
ognuno potrà starsene tranquillo nel suo campo - come dicono i
Profeti - «sotto la sua vite e sotto il suo fico, senza che
nessuno lo disturbi».
Da
quanto finora abbiamo esposto risulta che, dal momento in cui
il mondo venne creato fino a quando il mondo non ritroverà la
perfetta armonia, con la venuta del Messia, il rapporto
uomo-natura gioca un ruolo di importanza fondamentale. C’è una
legge che regola i rapporti tra uomo e Dio ed un’altra che
regola i rapporti tra l’uomo e la natura; dal rispetto di
queste leggi dipende l’atteggiamento di Dio nei confronti
dell’uomo e della natura.
Oggi
purtroppo assistiamo con viva preoccupazione alla distruzione
di quei beni naturali che sono indispensabili per la vita
dell’uomo e ci rendiamo conto di come l’inquinamento degli
elementi essenziali per la vita umana, l’atmosfera, le acque,
l’ambiente, distruggendo la natura, mettono in pericolo la
vita di animali, uccelli, pesci e la stessa vita umana. Da
parte di molti si cerca ora di porre un riparo a questa
situazione disastrosa e si suggeriscono rimedi che tengono
conto solo di elementi e di fattori che hanno attinenza con
l’azione dell’uomo nei confronti dell’ambiente, ma nessuno ha
ancora pensato che per correggere seriamente tutti gli errori
commessi contro la natura occorre prima trovare i mezzi per
liberare l’animo umano da quegli elementi che lo hanno così
gravemente inquinato da fargli perdere la nozione della
funzione dell’uomo nel mondo.
Dice un
Midrash (KOHELET RABBÀ VII-28): «Dio disse all’uomo:
guarda le mie opere come sono belle e degne di lode! Tutto
quanto io l’ho creato per te. Stai attento a non rovinare o a
distruggere il mio mondo perché, se farai così, non ci sarà
dopo di te chi potrà porre rimedio ai tuoi danni».
Sono
parole profetiche; il mondo è già abbastanza rovinato dagli
uomini e rischia di essere distrutto. Se essi però sapranno
purificare il loro spirito tornando a riconoscere Dio come
unico padrone del mondo e la natura come suo dono da tener
caro e da curare come un bene di inestimabile valore per la
loro felicità e per la gloria del Signore, allora, forse,
potranno sperare di porre rimedio a tanti danni ed a così
grandi rovine.
Nessun commento:
Posta un commento
Per invio materiale, scritti, commenti,immagini,ecc, scrivere a :
comunitando@livornoebraica.org
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.